di Salvo Barbagallo
Non sappiamo se nel momento in cui veniva eliminato dalla faccia della terra, Muammar Gheddafi abbia potuto pensare “Dopo di me il caos”, di certo non ha immaginato (o forse si?) cosa sarebbe accaduto nel “dopo Gheddafi”, chi aveva messo in moto il meccanismo bellico per togliere di mezzo lo scomodo leader libico. In questi ultimi cinque anni si è dimenticato (volutamente?) il punto d’origine dell’attuale, grave situazione, ma basta riandare a un articolo di Gianpaolo Rossi, di molti mesi addietro dal titolo veramente emblematico, Disastro Libia: ecco chi dobbiamo ringraziare, per rinfrescare un po’ la memoria. Rossi attribuiva la responsabilità del “disastro” a un francese, a un’americana e a un italiano, entrando nello specifico:
il francese Nicolas Sarkozy, l’ex premier francese, gollista con velleità napoleoniche: fu lui a volere con tutta la forza l’abbattimento del regime di Gheddafi nella convinzione che la Francia avrebbe recuperato la sua “grandeur”. Fu lui a guidare le potenze occidentali al riconoscimento di un governo libico d’insorti e fu lui ad imporre, a un recalcitrante Obama, i bombardamenti contro l’esercito di Gheddafi che portarono la Nato ad entrare a gamba tesa in una guerra civile schierandosi con uno dei contendenti e violando così il principio di non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano.
l’americana Hillary Clinton: fu lei a trascinare di malavoglia l’amministrazione Obama nella guerra “francese” in nome della difesa di diritti umani che in Libia erano violati più dai ribelli che dai lealisti di Gheddafi; e lo fece applicando un principio del tutto nuovo, quello della guerra umanitaria preventiva.
l’italiano Giorgio Napolitano: fu lui a spingere l’Italia nella guerra facendoci aderire alla coalizione che doveva applicare la risoluzione Onu, ma di fatto abbattere il regime libico al grido: “non lasciamo calpestare il Risorgimento arabo”.
Secondo Gianpaolo Rossi ecco chi dobbiamo ringraziare se oggi l’integralismo sta dilagando in Libia e gli jihadisti sono ormai a due ore dalle coste italiane.
Quanto si è susseguito dal marzo del 2011 in Libia e negli altri Paesi con lo pseudo fenomeno delle “Primavere arabe” è la conseguenza di interventi estranei ed esterni a quei territori e alle “culture” di quelle collettività. Il “Risorgimento arabo” non c’è stato perché il “Risorgimento” non rientra nel dna di quei popoli.
Oggi forse non è conducente ai variegati interessi di Coalizioni internazionali, esistenti o futuribili, riferirsi a un passato poco limpido; così come l’attuale leit motiv degli interventi armati con l’obbiettivo di raggiungere la “pacificazione” suona come una nota stonata. Sono i variegati interessi dei vari soggetti occidentali e orientali in campo a determinare i contrasti sul modo d’agire in quanto, fra l’altro, l’attenzione mondiale creatasi su quanto avviene in quei territori, scossi già dalle guerre interne, preclude nuovi alibi per gli interventi bellici che la Coalizione intende portare avanti. Comprensibili le difficoltà che incontra il premier italiano Matteo Renzi nel prendere una decisione definitiva sulla partecipazione italiana in una “occupazione” della Libia che in diversi vorrebbero trasformare in “protettorato”, cioè in pratica in nuova “colonia”: da una parte l’esigenza e la richiesta (accordata) di una leadership della Coalizione, dall’altra parte l’aspirazione di non volersi sporcare le mani, così come accaduto nel 2011 per la cancellazione di Gheddafi. Due elementi, di fatto, inconciliabili che stanno ponendo l’Italia in una posizione d’attesa ambigua che non accontenta nessuno e che scontenta gli alleati.
È la “vendetta” postuma di Gheddafi, il dittatore che era riuscito a tenere a bada per 42 anni il caos che si è precipitato sulle quelle terre, che erano e rimangono lontane dalla cosiddetta civiltà dell’Occidente, per la semplice circostanza che ad un’altra civiltà appartengono.